Paris, Opéra Bastille, “Andrea Chénier” di Umberto Giordano
IL RITORNO DELLE GRANDI VOCI
Andrea Chénier, grande assente dal repertorio dell’Opéra di Parigi, vi fa ora ingresso in un allestimento decisamente tradizionale che riflette i nuovi orientamenti dell’attuale direttore Nicolas Joel, fautore di un teatro d’opera “tempio del repertorio”, ma che scatena i dissensi di quella parte di pubblico e critica più in sintonia con le produzioni provocatorie e di “rottura” che avevano caratterizzato l’era Mortier.
Se pur presentata come nuova produzione, l’allestimento di Giancarlo del Monaco, non a caso figlio del grande Mario interprete di riferimento di Andrea Chénier negli anni ’60, è già stato rappresentato più volte in Italia; lo spettacolo è stato ora in parte rivisto e integrato con nuove scenografie e si alternano momenti di forte impatto a situazioni che scadono in un’aneddotica un po’ polverosa.
La regia fedele al libretto si avvale delle bellissime scene di Carlo Centolavigna che ricreano i luoghi e l’atmosfera rivoluzionaria che pervade il melodramma storico con raffinati squarci architettonici, accurati costumi d’epoca (di Maria Filippi) e un tripudio di coccarde e bandiere tricolori.
Particolarmente raffinato l’interno del castello di Coigny, completamente rivestito di maioliche azzurrine dai decori floreali che evocano la delicatezza di un giardino d’inverno settecentesco fragile come porcellana, le cui pareti si scardinano di colpo sotto gli occhi di volti incipriati e inanimati dai crani calvi e parrucche esasperate che assistono inermi al crollo dell’ancien régime. Di effetto il quadro del tribunale rivoluzionario, ambientato all’interno di un teatro ligneo perfettamente ricostruito con il tetto sventrato dai moti rivoluzionari, che emerge dal buio fino a incastrarsi nella scena con la folla accalcata nei palchi. Meno riuscita la scena finale, quando sul palcoscenico vuoto cala una maxi grata inclinata su cui si arrampicano come scimmie Andrea e Maddalena, che si sporgono per esporre le teste alla luce. Patibolo o ascensione?
Andrea Chénier è un’opera che mal sopporta forti riletture e un’impostazione tradizionale ha il merito di dare libero spazio alle voci, in questo caso davvero eccellenti, e per una volta non si sono rimpiante le grandi voci del passato che hanno fatto la fortuna di quest’opera presso il grande pubblico.
Marcelo Alvarez si è confermato un grande Chenier, di cui ha sottolineato con buone doti interpretative il poeta idealista piuttosto che il rivoluzionario. Il tenore argentino canta senza una sbavatura, coniugando eleganza e slancio e si apprezza la voce generosa, il fraseggio ed il crescendo espressivo. Con acuti sicuri, ma mai gridati, contribuisce a sfatare certi pregiudizi nei confronti del verismo riconducendolo al “bel canto”.
Micaela Carosi per la bellezza statuaria e il portamento sembra uscita da un quadro di Louis David e risulta una Maddalena di Coigny molto credibile sia come giovinetta irrequieta che come donna nel pieno della maturità. La voce è immensa e sicura (l’unico appunto è una dizione poco limpida) e un’ineccepibile “Mamma morta” emoziona il pubblico che tributa un applauso lunghissimo. L’ottimo controllo dei mezzi vocali consente ai due protagonisti di duettare all’unisono rendendo il finale elettrizzante.
Il ruolo di Gérard è stato sostenuto da Sergei Murzaev, dalla voce sonora e drammatica adatta a restituire la fierezza del personaggio; mentre “Son sessant’anni“ non convince per mancanza di sfumature e introspezione, incanta l’audience con un “Nemico della patria“ strappa-applausi, incisivo e potente.
Andrea Chénier prevede numerosi ruoli minori e un plauso va alla produzione per averli curati con grande attenzione. Segnaliamo la toccante Madelon di Mari José Montiel e la Contessa di Stefania Toczyska, un po’ affaticata Francesca Franci nel ruolo di Bersi. André Heyboer è un autorevole Roucher, Carlo Bosi è un Incredibile eccellente, discreto anche l’Abate di Bruno Lazzaretti; fra gli altri Igor Gnidii (Fléville), l’ottimo Mathieu di David Bizic e Antoine Garcin (Fouquier-Tinville).
Daniel Oren, di recente apprezzato a Parigi in Bohème, conferma il talento per questo repertorio, contribuendo alla valorizzazione musicale di un’opera trascurata nella programmazione francese.
La direzione impetuosa sottolinea tutti gli spunti teatrali e i contrasti dinamici della partitura con accelerazioni e smorzature, regalando colori e sfumature senza appesantire il suono, merito di un’orchestra omogenea e precisa che si piega alle esigenze del canto. Buona la prova del coro preparato da Patrick –Marie Aubert.
Dimenticati i fischi alla regia della prima, un pubblico entusiasta è stato letteralmente soggiogato dalle voci generose di forte presa emotiva che hanno riempito i grandi spazi della Bastille, rendendo giustizia a una delle opere di più difficile esecuzione del verismo italiano.
Visto a Parigi, Opéra Bastille, il 6 dicembre 2009
Ilaria Bellini
Teatro